sabato 17 ottobre 2009

LOST

Mistero sulla morte per stenti di un uomo che aveva 30mila euro in tasca
Egbert Baas, 56 anni, era stato visto aggirarsi tra i campi ma aveva rifiutato aiuto

TRENTO - E' morto di stenti, ma aveva in tasca 30mila euro: per ora resta avvolta nel mistero la tragica fine di un fotografo olandese, Egbert Baas, 56 anni, è stato trovato senza vita tra i filari dei vigneti in Trentino, con in tasca oltre 30mila euro, ma i primi risultati dell'autopsia rivelano che sarebbe morto di stenti. Il decesso, per cui viene escluso l'omicidio, impegna i carabinieri in un'indagine che al momento presenta una serie di punti oscuri, a partire dalle ragioni che hanno condotto l'uomo in Italia. Notizie sono attese anche dall'Interpol. A farlo cadere in terra, a Lavis, dove poi è stato trovato, sarebbe stato, a dire del medico legale, un malore, o comunque una debolezza enorme, causata dalla fame. Il corpo era stato scoperto giovedì sera da un agricoltore e l'autopsia, eseguita vendrì, ha escluso che la causa della morte sia stata violenta, non avendo evidenziato particolari segni sul corpo.

FORSE ALL'ORIGINE DEL DRAMMA UNA MALATTIA MENTALE - Resta aperta l'ipotesi che si tratti di un uomo con difficoltà mentali, al punto da perdere l'orientamento e il senso dell'appetito, così come del freddo, piuttosto intenso negli ultimi giorni in Trentino, con temperature notturne intorno agli zero gradi. Non viene escluso anche che si tratti di un senzatetto per scelta, che abbia deciso di finire in questo modo i propri giorni. Eppure che la sua attività fosse quella di fotografo sembrano provarlo alcuni oggetti e scontrini trovati nelle tasche, così come la presenza del suo nome nell'indirizzario internet dei fotografi di Deventer, località olandese con oltre 100mila abitanti, sul fiume IJssel. Viene indicata una specifica disponibilità per foto sportive, pubblicitarie, di matrimoni ed eventi. Certo è che nei giorni precedenti il ritrovamento del cadavere, alcuni contadini l'avevano visto girare per i campi, urlando: «Money, money (soldi)», circa due settimane fa, e che c'è stato anche chi gli ha offerto un posto per dormire, al caldo, ma si è visto rispondere con un rifiuto.

sabato 26 settembre 2009

sabato 27 giugno 2009

martedì 19 maggio 2009

LA FOSSA

Albuquerque, scoperta la fossa
delle prostitute uccise

Recuperati i corpi di dodici donne: una era incinta. Le vittime erano sparite tra il 2001 e il 2006

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
WASHINGTON – Christine Ross portava spesso il suo cane Ruca a passeggiare nella West Mesa, l'area semi-desertica alla periferia di Albuquerque, in New Mexico, una volta sacra agli indiani Navajo. Ma il 2 febbraio scorso, la passeggiata prese una piega strana.
Nel terreno, spianato di recente per una lottizzazione, Ruca fiutò qualcosa. Gli bastarono poche zampate per tirarne fuori un osso, piuttosto largo. A Christine sembrò un femore. Ma ebbe un sospetto: «Non era una cosa normale, istintivamente pensai che non doveva essere lì». Così fece una foto col cellulare e la mandò subito alla sorella infermiera, per una conferma. Ci vollero pochi minuti, poi il verdetto apparve sul display: «Oh my God, it's human», è umano. La telefonata successiva fu quella alla polizia. Gli scavi cominciarono lo stesso giorno.

FOSSA - Tre mesi e 50 mila metri cubi di terra rimossa dopo, quell'angolo della West Mesa è diventato la più grande "scena del delitto" mai vista negli Stati Uniti. Una fossa profonda 8 metri, ribattezzata the bowl, la scodella, al centro di un'area vasta una cinquantina di ettari. L'ultimo giorno ufficiale delle ricerche è stato il 25 aprile. Mucchi di ossa alla volta, settimana dopo settimana, hanno tirato fuori e i resti dei corpi di 12 giovani donne. Una era incinta. Finora ne hanno identificate solo sette: Monica Candelaira, 21 anni; Veronica Romero, 26; Cinnamon Elks, 31; Jiulie Neto, 23; Victoria Chavez, 28; Doreen Marquez, 27 e Michelle Valdez, 22, a quattro mesi di gravidanza.

MASSACRATE - Tutte erano sparite tra il 2001 e il 2006. Tutte erano ispaniche. Tutte facevano la vita nella War Zone di Albuquerque, il quartiere dove prostitute, tossicodipendenti e spacciatori di droga dominano il paesaggio urbano. Tutte si conoscevano fra di loro. Alcune erano madri. Alcune informatrici degli agenti. Tutte avevano detto di temere per la propria vita. E tutte sono state massacrate, con modalità che la polizia si rifiuta di rivelare, ma che il tam-tam delle indiscrezioni e la vox populi raccontano ferine, selvagge, raccapriccianti.

RABBIA - Le famiglie sono devastate. Gonfie di una rabbia alimentata da anni di frustrazioni, di fronte al muro del silenzio eretto da agenti e investigatori. Mai una telefonata restituita. Mai una pista, offerta dai parenti, verificata e men che meno seguita: «Non ci hanno mai ascoltato», dice Lori Gallegos, amica del cuore di Doreen Marquez. Il sospetto di un pregiudizio razzista grava su polizia e media: «Una come Michelle Valdez non faceva notizia, non era una giovane studentessa bionda e dagli occhi azzurri, sparita da uno dei quartieri bene della città. Né lei, ne le altre sono mai state cercate veramente in questi anni», dice Joline Gutierrez-Kruger, la reporter dell'Albuquerque Journal che da mesi lavora al mistero della West Mesa. È stata lei a raccogliere la testimonianza degli amici di Cinnamon Elks, che nell'agosto del 2004, poco prima di svanire, disse loro: «Un poliziotto corrotto taglia la testa di molte prostitute e le seppellisce nella Mesa». Solo suggestioni di una ragazza terrorizzata?

LE PISTE - Una cosa sembra certa: i delitti di Albuquerque sono opera della stessa persona o gruppo di persone. Eppure nessuno parla di serial killer. La teoria più accreditata è che West Mesa sia da anni il cimitero preferito da bande criminali, spacciatori e magnaccia. E comunque, come ha spiegato il capo della polizia locale, la lista dei sospetti e dei possibili moventi è lunga. Ma purtroppo anche piena di morti e di chiacchiere. Include un uomo che nel 2006 strangolò una prostituta ma poi venne ucciso; un prosseneta morto quest’anno di cause naturali; i membri di una delle bande della droga di Albuquerque, che avrebbero usato le ragazze come corrieri e poi le avrebbero eliminate per timore che parlassero; qualche squilibrato che avrebbe ucciso perché convinto di "fare il volere di Dio". Teorie addizionali: l'assassinio di una giovane donna come rito d’iniziazione e, dulcis in fundo, l’omicidio su commissione, ordinato da potenti figure politiche locali, legate al mondo della prostituzione e della droga.

I PRECEDENTI - Dietro la facciata della terra d’incanto, il New Mexico mostra così nuovamente il suo lato oscuro, quello che spesso ha visto decine di giovani donne pagare con la vita il peccato di averlo guardato troppo da vicino. Delitti a catena al femminile vennero consumati già negli Anni Settanta e poi nei Novanta a Santa Fè. E già allora le inchieste rivelarono torbidi intrecci tra le bande della droga, la polizia, alcuni politici. Il mistero della New Mesa forse è solo una replica.

Paolo Valentino
18 maggio 2009

sabato 18 aprile 2009

SIMONETTA

Dopo 19 anni potrebbe esserci una svolta nel giallo sull'omicidio di Simonetta Cesaroni
La procura di Roma ha depositato gli atti, passo di solito seguito da una richiesta di rinvio a giudizio

Delitto di via Poma, indagini chiuse
Il pm: processate l'ex fidanzato

Tra le prove dell'accusa anche la compatibilità tra l'arcata dentaria dell'indagato
e l'impronta del morso trovata sul seno sinistro della ragazza dopo la morte


Delitto di via Poma, indagini chiuse Il pm: processate l'ex fidanzato

Raniero Busco ai funerali di Simonetta Cesaroni

ROMA - Dopo 19 anni potrebbe esserci un processo per l'omicidio di via Poma. La procura di Roma ha chiuso l'inchiesta, con il deposito degli atti, passo che solitamente prelude a una richiesta di rinvio a giudizio, contro Raniero Busco, l'ex fidanzato di Simonetta Cesaroni, come già anticipato da alcune indiscrezioni di un paio di anni fa.

La ragazza venne uccisa con 29 coltellate il 7 agosto del '90 negli uffici degli ostelli della gioventù dove lavorava, nel quartiere Prati. Il pm Ilaria Calò e il procuratore Giovanni Ferrara hanno ipotizzato a carico di Busco il reato di omicidio volontario.

A comunicare a Roberto Busco la conclusione dell'inchiesta è stato l'avvocato Paolo Loria che lo assiste da anni. "Il mio cliente - ha detto il difensore - è rimasto sorpreso. Ora esamineremo la perizia e tutte le altre risultanze istruttorie e poi vedremo quali problematiche si affacciano per la difesa. Anche perché non è sicuro che si arrivi ad un processo". Busco, intanto, mantiene il massimo riserbo sulla vicenda giudiziaria: "Si continua a dichiarare innocente", ha concluso il penalista. Il deposito degli atti è stato notificato al difensore il quale ora entro 20 giorni dovrà presentare le sue richieste istruttorie.

A sostegno dell'accusa, tra l'altro, c'è anche una consulenza affidata a due dentisti e due medici legali che ha stabilito una compatibilità tra l'arcata dentaria dell'indagato e l'impronta del morso trovata sul cadavere, sul seno sinistro, dopo la morte. Secondo gli esperti, c'è una particolarità che si ripresenta. L'esame era stato disposto in seguito agli accertamenti del dna compiuti dal Ris su una traccia di saliva rinvenuta sul corpetto che indossava la vittima e risultata appartenere all'ex fidanzato. Un elemento, quest'ultimo, importante, ma non decisivo perché non collocabile temporalmente sulla scena del delitto. I due ragazzi, infatti, si erano visti il giorno prima dell'omicidio, come ha raccontato a suo tempo alla polizia lo stesso indagato.

Quanto alla macchia di sangue rinvenuta sulla porta dell'ufficio di via Poma, i consulenti della procura di Roma, Vincenzo Pascali, Marco Pizzamiglio e Luciano Garofano avevano così concluso: "La traccia rossastra sul tassello di legno è riconducibile a sangue. La quantità di materiale genetico estrapolata dalla medesima è risultata estremamente esigua. Le analisi della traccia ematica hanno consentito di estrapolare un assetto genotipico complesso, in cui la componente maggioritaria è costituita dalla vittima, in associazione ad una componente largamente minoritaria riconducibile a materiale genetico maschile. La valutazione globale dei dati ottenuti concorda con quanto affermato nella relazione degli esperti spagnoli, il che non permette di escludere né di confermare la presenza di materiale genetico di Raniero Busco, nel profilo complesso estrapolato dalla macchia di sangue in reperto. Lo stesso assetto genotipico complesso è stato confrontato con i profili genici di tutti gli altri soggetti precedentemente considerati nell'ambito dello stesso processo, escludendo qualsivoglia compatibilità".

Per la procura, quindi, la circostanza che sia stata esclusa la presenza di tracce di altri soggetti maschi depone come indizio a carico di Busco. Nessun contributo utile era arrivato, invece, dall'analisi delle tracce biologiche rilevate sul vetro dell'ascensore, sul lavatoio condominiale, sul tagliacarte, sulla cornice di un quadro presente nella stanza dove è morta Simonetta e su alcuni oggetti personali della vittima (orologio, ombrello pieghevole, fermaglio per capelli).

Anche l'alibi di Busco, per la procura, non è considerato sufficiente. Il ragazzo, infatti, sostenne che al momento del delitto si trovava in compagnia di un amico ma questi negò affermando che quel giorno era al funerale di una parente a Frosinone.

"La famiglia Cesaroni non può che essere soddisfatta soprattutto per la continuità e la perseveranza dimostrate dalla procura nel perseguire un delitto così efferato - ha detto il legale Lucio Molinaro - La soddisfazione sarà maggiore se da un'indagine così accurata si arriverà a un risultato positivo dal punto di vista processuale".

(18 aprile 2009)

domenica 8 marzo 2009

LA DONNA VAMPIRA


trovato a venezia lo scheletro medioevale di una donna vampira, un mattone ancora infilato in bocca, per impedirle di rialzarsi e di succhiare il sangue ai vivi

giovedì 5 marzo 2009

martedì 24 febbraio 2009

ET IN ARCADIA EGO


Et in Arcadia ego" è un'iscrizione riportata in alcuni importanti dipinti del '600, fra cui l'omonimo "Et in Arcadia ego" del Guercino, realizzato fra il 1618 ed il 1622. Essa appare anche come iscrizione tombale sul dipinto "I pastori di Arcadia" (circa 1640), del pittore francese Nicolas Poussin. La frase significa letteralmente, "Anche io nell'Arcadia".

sabato 21 febbraio 2009

COLD CASE

Los Angeles, l'oscura morte
della nuova «Dalia nera»

Juliana Redding, attrice uccisa a 21 anni, al centro di indagini blindate

La vittima, Juliana Redding. Il delitto fa rivivere il caso di Betty Short., che appassiona da 60 anni
La vittima, Juliana Redding. Il delitto fa rivivere il caso di Betty Short., che appassiona da 60 anni
WASHINGTON — Juliana Redding è arrivata dall'Arizona a Los Angeles con pochi soldi e molti sogni. Voleva fare l'attrice o la modella, sperava almeno di riuscire a sfiorare se non a toccare il fascinoso mondo delle stelle. E all'inizio, malgrado avesse solo 18 anni, sembrava esserci riuscita ottenendo una particina in un film indipendente e qualche foto su una rivista. Ma era troppo poco per vivere. Così, in attesa della svolta, Juliana si arrangiava come cameriera in un paio di locali della colorata Venice Beach. Lavori part-time che le portavano un po' di dollari per pagarsi gli studi al college e qualche amicizia fugace. Ed è forse tra i clienti del bar che oggi dovrebbero cercare il suo assassino, l'uomo — o la donna — che l'ha uccisa un anno fa. Particolari e ambientazione che hanno spinto i media ad accostare il caso dell'aspirante attrice a quello della «Dalia nera», Elizabeth Short, 22 anni, trucidata a Los Angeles nel 1947. Un omicidio che ha ispirato libri, film, teorie cospirative ma che attende ancora di essere risolto. Juliana è stata trovata senza vita alle 18.10 del 16 marzo 2008. Gli amici non la vedevano da qualche giorno e hanno avvisato la madre che, a sua volta, ha allertato la polizia. Una pattuglia ha raggiunto il monolocale di Santa Monica dove la ragazza si era trasferita da un paio d'anni. Ed è lì che gli agenti hanno scoperto il cadavere. Le prime indiscrezioni ipotizzavano che la vittima fosse stata colpita con un oggetto pesante e c'erano vaghi accenni ad una possibile violenza sessuale. Ma la polizia, inspiegabilmente, si è chiusa a riccio evitando di fornire informazioni precise.

DOSSIER BLINDATO - Il suo dossier è stato di fatto blindato, nulla è trapelato sulle cause del decesso. Quasi un anno dopo il mistero di Juliana è finito nelle trasmissioni tv che si occupano di vecchi delitti con l'appello ai cittadini perché diano una mano all'inchiesta. E in mancanza di dettagli nuovi i giornalisti hanno tracciato un parallelo tra la sua breve esistenza e quella di Elizabeth «Betty» Short. Entrambe ventenni erano venute nella «città degli angeli» per cambiare la loro vita e dunque erano aperte ai contatti, all'avventura. Ma non sai mai chi hai veramente di fronte. James Ellroy, l'autore di un bellissimo romanzo sulla «Dalia Nera», ha scritto con efficacia che «a Los Angeles arrivi spregiudicato, riparti pregiudicato». In un certo mondo il pericolo ha tante facce. Ed Elizabeth Short, purtroppo, ha incontrato un uomo che l'ha fatta letteralmente a pezzi e l'ha abbandonata sul ciglio di una strada. Un mostro. Meno crudele ma spietato l'assassino che ha strappato alla vita Juliana. Forse rispetto alla «Dalia nera», la ragazza dell'Arizona era più cauta, più selettiva negli incontri. Negli ultimi sei mesi della sua esistenza stava con un ragazzo, poi è finita senza drammi. E la polizia lo ha controllato a lungo concludendo che era «pulito». Elizabeth era invece più disinvolta. Passava da un bar all'altro, non si faceva troppi problemi. L'hanno dipinta come una prostituta, ma non ne hanno mai avuto le prove certe. Sapevano solo che vedeva parecchi uomini. Per questo, quando è partita l'inchiesta, la lista dei possibili sospetti era lunghissima. Poteva essere stato chiunque avesse incrociato la sua vita tortuosa. E poi, con il clamore della vicenda, si sono fatti avanti i mitomani — quasi 60 tra uomini e donne — pronti a confessare. Un intrigo che continua ad affascinare l'America. Se andate su Internet, trovate di tutto su di lei: dagli atti ufficiali alle fotografie— terribili — scattate dalla Scientifica il giorno del ritrovamento. Su Juliana non è emerso troppo. Non si è ancora parlato di doppia vita, di segreti, di amicizie pericolose. Per ora il suo è solo un «caso freddo». E rischia di rimanerlo.

Guido Olimpio

giovedì 19 febbraio 2009

mercoledì 28 gennaio 2009

VOCI PERDUTE / LOST VOICES


Voci di astronauti sovietici persi nello spazio, captati negli anni 50 e 60 dai fratelli torinesi Jodica Cordiglia. L'immensa infinita tristezza dello scomparire da soli, nello spazio profondo, la Terra un'immagine vista da un oblò degli anni 50...
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photo © 2008 giovanni caviezel

sabato 10 gennaio 2009

A CRIMINAL MIND


Lucky Luciano, la storia di un boss.
Di Valentina Castellano Chiodo

Urlando attraverso il nastro adesivo che gli chiudeva la bocca, mentre dalla gola e dal mento squarciati scendeva il sangue, Charles Luciano pendeva dalla trave di un magazzino abbandonato di Staten Island, nella fredda notte del 16 ottobre 1929. Il suo corpo trafitto e percosso, continuò a contorcersi spasmodicamente, finché i pollici ai quali era appeso scivolarono fuori dai nodi.
I suoi torturatori credevano fosse morto ed erano fuggiti. Luciano invece, ancora vivo, riuscì a trascinarsi fino a Highland Boulevard, dove si trovò investito dalle luci del traffico. “Non so chi sia stato - disse ai poliziotti - Me ne occuperò io stesso!”. A soli 31 anni Luciano stava dando prova delle sue doti di coraggio e perseveranza, dell’omertà nei confronti della polizia e della spietatezza con cui risolveva i propri problemi personali con una cautela e una presenza di spirito tipiche di un capo, pronto ormai ad assumere il comando. Era riuscito a venirne fuori vivo in maniera talmente miracolosa che da quel momento lo avevano chiamato «Lucky» , fortunato, anche se lui faceva il modesto e affermava che quel nomignolo fosse dovuto al ferro di cavallo tatuato sul suo braccio.
Questa è la storia di un boss che ha segnato la storia della mafia americana, la storia di un uomo partito dalla Sicilia bambino e diventato criminale nell’America lontana: Lucky Luciano.
Il suo vero nome era Salvatore Charles Lucania, nato a Lercara Friddi, Palermo, l’11 Novembre 1897. Il padre aveva trovato lavoro nella lontana Brooklyn e così la moglie e cinque figli lo avevano seguito, emigrando tutti negli Stati Uniti. Prima della notte terribile che lo avrebbe segnato a vita, Luciano aveva già collezionato 17 arresti. Da piccolo aveva abbandonato la scuola elementare ed era stato affidato alla scuola speciale di Brooklyn, lavorava in una fabbrica di cappelli, per 5 dollari alla settimana, ma dopo due anni decise di andarsene per “non essere una nullità”.
Fu arrestato la prima volta nel giugno 1916 con mezzo grammo di eroina in tasca e, riconosciuto colpevole, aveva passato i suoi primi sei mesi in carcere; nel dicembre 1921 fu fermato dalla polizia perché in possesso di una pistola carica; nel giugno 1923 tratto in arresto per possesso di eroina e rilasciato in cambio di collaborazione con la squadra narcotici: alcuni agenti furono guidati da lui in uno scantinato di Little Italy, dove poterono mettere le mani su un camion di eroina e altre droghe.
Nel luglio 1926, dopo una serie di arresti minori, fu fermato perché in possesso di un fucile a canne mozze, due pistole e quarantacinque cartucce. Ancora tre arresti per aggressione a mano armata, possesso illegale di pistola e comportamento antisociale, finché fu coinvolto nell’arresto del suo socio in un traffico di alcolici e poi assolto. Nel 1928 fu fermato per aggressione ad una vittima che non fu in grado di identificarlo, nel 1929 la famosa aggressione gli lasciò gola e mento coperti di cicatrici e la palpebra destra sfregiata e abbassata. Tra il 1930 e il 1931 Lucky fece una fulminea carriera nell’organizzazione in cui era stato semplicemente fornitore e spacciatore di droga. Giuseppe Masseria detto “Joe the boss”, lo mise in testa delle gangs italo-americane dell’East Side, quella che veniva chiamata Mafia, coinvolgendolo nello spaccio di droga e nel racket delle lotterie. Poco tempo e Joe Masseria, sarebbe stato ucciso per lasciare posto a Salvatore Maranzano, il “capo di tutti i capi”, che formulò le regole: morte per chi disobbediva, per chi “parlava” con la polizia e per atti disonorevoli; a nessun membro della mafia era permesso di farsi giustizia da solo nei confronti di un altro membro. Quando Luciano fu nominato boss di una delle cinque famiglie di New York le aspirazioni e il dominio di Maranzano si rivelarono irrealizzabili. Infatti nella notte del 10 settembre 1931, Lucky Luciano ordinò lo sterminio dei suoi rivali e in quella che fu denominata la Notte dei vespri siciliani, fece assassinare senza pietà quaranta boss legati alle due famiglie dei Maranzano e dei Masseria da quattro suoi uomini, travestiti da poliziotti. In realtà non si conosce il numero reale di morti assassinati in quella sera, dato che i corpi non furono mai ritrovati.
Da quel momento Lucky Luciano divenne capo riconosciuto della mafia americana, rafforzando alcuni legami scelti da Maranzano e ponendo fine alle guerre intestine tra le famiglie e alle sparatorie con le forze dell’ordine. La sua preoccupazione fu di dare un orientamento nuovo, creando legami di fratellanza tra i diversi raggruppamenti etnici del crimine.
Si mise a lavorare sugli “affari”, organizzando il traffico di stupefacenti, riorganizzando il racket dei giochi d’azzardo, nonché il controllo alla prostituzione. Luciano amava giocare alle corse dei cavalli e circondarsi di belle donne, le stesse pare che frequentavano i bordelli divenuti “sindacati”, controllati e gestiti dalla mafia.
Fu il procuratore distrettuale Thomas Dewey, ad interessarsi del suo caso, colui che lo trascinò in tribunale, in occasione del famoso processo del 1936, dinnanzi alla Court of General Session di New York, proclamando alla giuria: “Condannate quest’uomo, oppure proclamate al mondo e al pubblico che i grandi gangster sono liberi di fare quello che vogliono”. Sia la giuria che il giudice lo dichiararono colpevole dell’organizzazione di un racket per il controllo e lo sfruttamento alla prostituzione infliggendogli una condanna pesantissima: da trenta a cinquanta anni di carcere.
Dopo i primi nove anni però avvenne la svolta e uno spiraglio di luce per Luciano, ignaro di quello che invece sarebbe presto accaduto. In merito a questa storia Leonardo Sciascia affermò: “Nel febbraio 1946 la Giustizia americana fece un regalo alla Mafia. Rispedì in Italia, suo paese d’origine, Salvatore Lucania, alias Lucky Luciano, il re della malavita di New York. Condannato nel 1936 a cinquant’anni di carcere, venne poi graziato “per speciali servizi resi alle forze armate degli Stati Uniti” dallo stesso Dewey, diventato Governatore dello Stato di New York”.
L’episodio della condanna, del condono a Lucky Luciano e del suo rinvio in Italia come indesiderabile fu però complesso e pieno di continui risvolti.
Lucky Luciano si è reso responsabile di numerosi omicidi, sia come esecutore che come mandante. L’omicidio del famigerato gangster Dutch Shultz, il sabotaggio del transatlantico più veloce del mondo e la collaborazione con i servizi segreti per lo sbarco degli americani in Sicilia hanno costruito la sua sinistra leggenda, rendendolo uno dei più importanti padrini, insieme ad Al Capone e John Gotti.

domenica 4 gennaio 2009